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Franco Loi - Il fascista e la “gianna” a Piazzale Loreto.

1944, settant’anni fa. Tra le tante stragi che hanno punteggiato di sangue e di terrore quell’anno tragico alcune hanno assunto un valore simbolico tutto particolare per la loro imponenza ed efferatezza, per il luogo in cui sono state compiute, per il senso di sfida nei confronti dei cittadini: nella memoria di tutti sono rimaste le stragi di Marzabotto e di S.Anna di Stazzema, delle Fosse Ardeatine e di Piazza Loreto a Milano.
Il 10 agosto 1944 un ragazzo passava in quel largo piazzale che segnava il crocevia della Milano operaia e industriale: verso nord i larghi viali portano verso Sesto S. Giovanni, la città , allora, delle grandi fabbriche, verso sud corso Buenos Aires conduce verso il cuore della metropoli. Attratto da una folla ammutolita il ragazzo si avvicina a una staccionata e lì, buttati in maniera scomposta e sorvegliati dai militi fascisti della repubblica di Salò, vede i corpi di quindici fucilati; diversi anni dopo ricorda così: “C’erano morti gettati sui marciapiedi, contro lo steccato, qualche manifesto di teatro, la Gazzetta del sorriso, cartelli, banditi! Banditi catturati con le armi in pugno! Attorno la gente muta, il sole caldo. Quando arrivai a vederli fu come una vertigine: scarpe, mani, braccia, calze sporche […] ai miei occhi di bambino era una cosa inaudita: uomini gettati sul marciapiede come spazzatura e altri uomini, giovani vestiti di nero, che sembravano fare la guardia armati”. Tra i cadaveri scorge, quasi non credendo ai suoi occhi, il cadavere del suo maestro, Salvatore Principato, e quello di Libero Temolo, il padre del suo migliore amico. Quel ragazzo era Franco Loi, grande poeta milanese, e quello spettacolo di morte non l’ha mai dimenticato: anzi lo ha rappresentato con straordinaria forza ed efficacia nei versi in dialetto presenti nella raccolta “Strolegh” del 1975.
La poesia si apre con un appello diretto alla piazza, luogo del crimine, anch’essa umanizzata e divenuta testimone partecipe davanti a tanto orrore:

...piassa Luret, serva del Titanus
ti', verta,
'me na man da la pell morta
i gent che passa par j a vör tuccà,
e là, a la steccada che se sterla,
sota la colla di manifest strasciâ,
l'è là che riden, là, che la gent surda
la streng i gamb, e la vurìss sigà.

[...piazza Loreto, dominata dal Titanus
tu, aperta,
come una mano dalla pelle morta
sembri voler toccare la gente che passa,
e là, presso la staccionata sconnessa 
sotto la colla dei manifesti stracciati,
è là che ridono, là, che la gente sorda
stringe le gambe e vorrebbe gridare.]

Il piazzale, da cui si dipartono cinque strade, appare come una mano dalla pelle morta, una pelle che si stacca come quei manifesti seccati dal sole d’agosto.
La rivelazione della morte arriva prima della visione della strage e si insinua subito nella mente di chi legge, assieme all’oppressiva sensazione prodotta dall’Hotel Titanus, divenuto in quegli anni sede di un comando nazista. Poi prende atroce consistenza il senso dell’orrore perché là, addosso a quei cadaveri ci sono gli assassini in divisa nera che ridono…“l'è là che riden”! E’ un riso ignobile e provocatorio, un oltraggio al dolore e alla disperazione, un riso accompagnato da gesti di disprezzo di chi vuole fare violenza non solo mediante le armi, ma anche e soprattutto attraverso la negazione di ogni senso di umanità; è un riso di odio, che semina e genera odio:

tra n' rid e un dìss üsmen cress j ödi
de la camisa nera i carimà,
vün füma, nòlter pissa, un ters saracca,
e 'n crìbben, cul so fà de pien de merda,
man rosa ai fianch el cerca j öc c nìa...

[tra il ridere e il parlare, annusano crescere gli odi
gli occhi lividi delle camicie nere
uno fuma, un altro piscia, un terzo sputa,
e un delinquente, col suo modo di fare pieno di merda
con le mani rosate sui fianchi cerca gli occhi che gli si negano...]

Il terrore, la rabbia, lo sbalordimento di tutta la piazza è anonimo, ma non impersonale e a un certo punto prende forma nel pianto di una donna del popolo, una “gianna”, come si diceva nel dialetto milanese:

tra 'n mezza nün 'na gianna la dà 'n piang,
e l'è 'na féver che trema per la piassa
e la smagriss i facc che morden bass.
[in mezzo a noi una povera donna scoppia a piangere,
ed è una febbre che trema per la piazza
e fa smagrire le facce che stringono i denti a testa bassa].

Ma anche il pianto, la pietà, una preghiera (come ha testimoniato Mons. Barbareschi, che allora giovanissimo seminarista è andato a benedire quelle vittime, dopo il più codardo che diplomatico rifiuto del card. Schuster, arcivescovo di Milano) sono una minaccia per i fascisti: essi vogliono imporre un terrore muto, che non riesca ad esprimersi in nessun modo, ma scoppi dentro la testa e il cuore e produca l’impotenza. Invece quel pianto è dolore che diviene il seme della lotta, di resistenza alla disumanizzazione, di volontà insopprimibile di giustizia e di libertà. Allora un milite della Muti (erano stati loro, gli assassini in camicia nera, a eseguire l’eccidio, è bene non dimenticarlo mai!) si fa avanti e impone alla donna di smetterla di piangere:

Ehi, tu...!... si tu!... che vuoi?
   Manca qualcosa?
Mì...?
Si, tu.
e 'na magatel cul mitra sguang
el ranfa per un brasc quèla che piang.

[Ehi tu...!...si tu!... che vuoi?
   Manca qualcosa?
     Io...?
Si, tu,
e un teppista col mitra porco
afferra per un braccio quella che piange.]

Le parole del fascista sono piene di violenza e di disprezzo: quel “manca qualcosa” di fronte a quindici corpi massacrati è un monumento alla ferocia. Ma esse segnano anche il totale isolamento dei carnefici. Infatti in un contesto linguistico totalmente dialettale il poeta le fa pronunciare in italiano: il dialetto qui è la lingua della comunità, l’italiano è il segno dell’estraneità, dell’impossibilità di essere riconosciuto come parte di un popolo.
All’italiano, qui lingua del potere e della prevaricazione, la donna risponde in dialetto: è una risposta tenue, impaurita (Mi, sciur...?), ma non remissiva; strattonata e minacciata, mostra la sua resistenza tenendo la testa bassa, rifiutando un contatto col milite fascista che non sa esprimersi che con l’imposizione della forza:

Tira su la testa !
E lentament,
'm rìd una püciànna, i òcc gaggin
Sbiàven int j òcc ch'amur je fa murì,

[Tira su la testa!
e lentamente,
come ride una puttana, gli occhi bianchicci
sbavano negli occhi che l'amore fa morire].

Ma non basta al repubblichino: dopo la violenza sui vivi vuole mostrare anche il disprezzo per i morti per imporre un marchio di vergogna, quella vergogna, come ha scritto Primo Levi, “che i tedeschi [e i fascisti loro complici] non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.” Di fronte al dolore e al pianto della “gianna”, di fronte al dolore e alla rabbia della folla, il fascista,

pö, carmu, 'na saracca sliffa secca
tra i pé de pulver, e sfrisa 'me 'na lama
l'uggiada storta tra quj òmn scalfà.

[poi, calmo, tira secco uno sputo
tra i piedi nella polvere, e graffia come una lama
l'occhiata storta tra quegli uomini scorticati].

Le parole di Franco Loi, legate da frequenti allitterazioni, cadono pesanti e brucianti come piombo fuso, la sua narrazione procede per immagini, asciutta, dolente, mai retorica: e in mezzo a tanto orrore resta nella memoria e negli occhi la nitida figura di questa donna, simbolo di una resistenza silenziosa, dolorosa e tenace.
               
                                                                                           Vincenzo Viola (Apr.2014)
Appendice a una serie d'incontri, condotti dal prof. Vincenzo Viola. Tema: La poesia e le guerre
Sergio Solmi - La primavera italiana
Aprile a San Vittore

Grazie sien rese ai ciechi
iddii ridenti, che il poeta trassero
di morte e dalla nera muda al gaio
giorno del camerone dove cantano
i giovinetti partigiani.
Aprile
dolce dormire, s'anche aspra s'ingorga
nelle bocche di lupo la sirena,
passa la conta, sparano i tedeschi
sulle mura. Reclino
sul gomito piegato il mallo vergine
della capigliatura, dentro il sonno
fiducioso calati come in grembo
della madre al lontano
tempo dell'altra vita, oggi vi guardo,
miei quasi figli, fatti miei fratelli
da antica giovinezza che m'ha gonfio
il cuore all'improvviso, poi che il raggio
di miele della primavera cola
tra le sbarre, sull'impiantito stampa
riquadri luminosi, ed alle nostre
gracili vite a oscuro esito offerte
misura a lento passo uguale giorno.


Sergio Solmi, poeta e critico letterario, amico di Piero Gobetti e di
EugenioMontale e membro del Partito d’Azione, col nome di
Mario Rossetti è stato molto attivo nella Resistenza, organizzando
dal suo ufficio presso la Comit azioni importanti e coperture
essenziali. Per questa sua attività è stato arrestato una prima
volta nel gennaio 1945: è riuscito ad evadere ma è stato di nuovo
catturato il 6 aprile ed internato a S. Vittore. Sono i giorni in cui i
nazisti e i fascisti sentono ormai imminente la sconfitta:
soprattutto tra i repubblichini l’atteggiamento pencola tra il
tentativo di ridurre le proprie responsabilità attraverso un
atteggiamento di disimpegno e la ferocia sempre più efferata e
vendicativa. Solmi fu interrogato duramente e anche torturato,
ma non parlò; dopo l’interrogatorio e le minacce venne rinchiuso
nel “camerone”assieme ad altri partigiani.
Di questo momento parla la poesia “Aprile a S. Vittore”, in cui il
dolore e la speranza si intrecciano con grande efficacia evocativa.
Il testo si apre, in maniera del tutto inattesa, con un
ringraziamento ai “ciechi iddii ridenti”: a un passo dalla morte il
destino fa trovare al poeta l’ondata della vita, come ha scritto
Montale. La freschezza e la forza ideale dei giovani compagni di
prigionia riempiono di vita anche il carcere e gli atti di guerra e il
“gaio giorno” si contrappone al senso di morte della “nera muda”.
Si notino questi termini: il tratto cromatico non può che
rimandare al colore simbolo del fascismo, mentre il termine
“muda” evoca uno degli episodi più atroci dell’Inferno dantesco:
quello del Conte Ugolino (“Breve pertugio dentro della muda / la
qual per me ha il titol della fame…” Inf. XXXIII 22-23) in cui un
padre è costretto a veder morire di fame e nella disperazione tutti
i suoi figli.
Qui invece sono i “giovinetti partigiani” che ridonano la vita,
simbolicamente rappresentata dal canto.
Questa è la scoperta per la quale il poeta ringrazia il destino che
gli ha fatto incontrare i “quasi figli, fatti miei fratelli” (v. 15), la cui
compagnia non allontana certo il rischio di morte (“gracili vite a
oscuro esito offerte”), ma dà un senso alla vita, che ora è sentita
come “raggio di miele” che “cola tra le sbarre”. Il suono dolce
delle parole “miele” e “cola” rende meno minacciosa la parola
dura “sbarre”.
In tutta la poesia le immagini di vita fanno riferimento all’ambito
tematico della primavera.
Al v. 6 la parola “ Aprile” (inserita nel noto proverbio “Aprile
dolce dormire” che, in questo contesto, genera un senso di dolce
atmosfera infantile e familiare) svolge un ruolo fondamentale:
essa chiude la prima parte e completa metricamente il v. 5 e al
tempo stesso apre sul piano logico e di significato la seconda
parte e contrasta con la luminosità che evoca i toni cupi dei versi
immediatamente seguenti:
s'anche aspra s'ingorga
nelle bocche di lupo la sirena
passa la conta, sparano i tedeschi
sulle mura.
Alle immagini che sono minacciose anche attraverso i nomi degli
oggetti (le “bocche di lupo” sono le finestre delle carceri, ma qui
l’espressione rimanda senza dubbio alla ferocia degli aguzzini) si
contrappone la serenità del sonno dei partigiani reclusi: nelle
parole di Solmi non vi è banalizzazione della situazione tragica,
ma la sensibilità (“antica giovinezza che m'ha gonfio / il cuore
all'improvviso”) di chi sa di aver fatto compiutamente la scelta
giusta.
Come coronamento delle immagini cariche di simboli vitali vi è il
sole primaverile, che “sull'impiantito stampa / riquadri
luminosi”: esso è preannuncio della vittoria imminente (ma che
avrebbe richiesto ancora tanti sacrifici: quanti sono stati uccisi
negli ultimi giorni, nelle ultime ore del terrore nazi-fascista!) e
rappresenta felicemente la forte spinta psicologica a sperare
ancora dopo il gelido inverno della guerra e dell’occupazione e a
operare per una primavera di libertà.
Questa poesia è stata pubblicata nella raccolta intitolata
“Quaderno di Mario Rossetti”: anche in questo modo,
riproponendo il nome di battaglia da partigiano, il poeta ha inteso
sottolineare la continuità tra la sua attività di combattente e il
suo costante impegno culturale di alto contenuto civile e
democratico.

                                                                                     Vincenzo Viola (Apr.2014)
25 aprile. Noi cantiamo la resistenza e la liberazione!
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